Tutti ricorderanno l’omicidio di J.F. Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre del 1952, mentre sfilava in Dealey Plaza. La vettura che lo trasportava era la sua Lincoln Continental personalizzata, alla quale era stato rimosso il tettuccio anti-proiettili in plexiglas, una mancanza fatale per le sorti del presidente statunitense.
I mezzi odierni con cui si spostano i capi di Stato e altre personalità importanti sono contraddistinti da misure di sicurezza aggiunte che permettono la salvaguardia della loro vita.
All’alba dei tempi invece, quando le automobili vivevano la loro fase primordiale e quando ci si spostava in carrozza, la situazione era totalmente diversa. E molto pericolosa.
I sovrani di allora erano soliti viaggiare di nascosto o, al limite, con carrozze chiuse, così da evitare possibili attentati che erano all’ordine del giorno. La carrozza o il calesse veniva privato del tettuccio in caso di manifestazioni pubbliche e ufficiali, poichè il clima era più disteso ed il re si mostrava alla grande folla per rinforzare il legame con i proprio sudditi.
Per quanto potessero essere apprezzati dal popolo, i capi di Stato erano le vittime predestinate di quel movimento conosciuto come “terrorismo anarchico”.
Gli attentatori agivano come singoli e dietro questi atti c’era la visione del re non come un sovrano, bensì come un tiranno, ed era dunque necessaria la sua morte per liberare i sudditi dalle continue angherie subite. Tuttavia non sempre quest’ultimi condividevano tale ideale.
NON C’È DUE SENZA TRE
Questo avrebbe dovuto saperlo il Re Umberto I, sovrano d’Italia, assassinato il 29 luglio del 1900 a Monza. Nel 1878 e nel 1898 era stato già vittima di due tentati omicidi, dai quali ne uscì con pochi graffi. Non andò così invece in quel giorno fatidico.
Il sovrano era stato invitato dall’associazione ginnica “Forti e Liberi” e nella città briantea si respirava un’aria festosa per l’arrivo del Re. Quest’ultimo era ben voluto dalla maggior parte della popolazione, tuttavia era criticato negativamente per il suo duro conservatorismo ed era ostile al Vaticano.
Il clima era così cordiale, che le misure di sicurezza erano minime e lo stesso Re non indossava la giubba protettiva. Umberto I, che fino ad allora aveva vissuto all’ombra del più amato padre Vittorio Emanuele II, sfruttava ogni minima occasione che si presentava per cogliere la benevolenza dei sudditi, accattivandoseli con elogi e con complimenti.
Nonostante la sua forte persuasività, un membro della folla non fu per niente convinto dalle sue gesta e dalle sue parole. Doveva portare a termine ciò che aveva prefissato e per la qual cosa era tornato dalla lontana America. Sto parlando di Gaetano Bresci, un giovane pratese ispirato dal movimento anarchico, che considerava il sovrano colui che si era macchiato dell’omicidio di molti civili indifesi durante i moti di Milano del 1898.
Questo fu il movente e il fatto accadde all’improvviso: mentre Umberto I salutava la folla dalla carrozza e si apprestava a tornare alla propria dimora, il Bresci, alzandosi su uno sgabello posto per assistere alle premiazione dei ginnasti, sparò tre colpi di rivoltella verso la carrozza, rispettivamente uno al polmone e un secondo al cuore, mentre l’ultimo non andò a segno. Tre spari che stonavano rispetto agli applausi dei presenti che accompagnavano la Marcia Reale. La carrozza ripartì velocemente alla volta della Reggia, ma il Re spirò poco dopo, con in gola ancora bloccate le parole e i complimenti per la sua gente.
L’attentatore anarchico rischiò il linciaggio, ma fu salvato in tempo da un maresciallo lì presente, tale Giuseppe Braggi, che lo sottrasse dalla rabbia del popolo e lo portò in caserma. Gaetano Bresci, condannato all’ergastolo, morirà suicida in circostanze dubbie nel carcere di Santo Stefano.
NEL BRACCIO DELLA MORTE
Per Carlo I del Portogallo l’incontro con il creatore era ormai una questione di pochi giorni.
Salito al trono nel 1889, si ritrovò al comando di un paese profondamente segnato da crisi interne ed esterne. La potenza coloniale del Portogallo era ormai venuta meno e la vicina Inghilterra ne aveva limitato le sue attività all’estero, in particolare in Africa. La figura di Carlo I fu fondamentale per la salvezza del regno, in quanto la sua diplomazia e il suo sapersi rapportare con gli altri capi di Stato permisero di limitare le perdite coloniali e di fortificare le alleanze, anche con lo stesso Regno Unito.
Al contrario la sua amministrazione interna fu un vero fallimento.
Dopo che il Paese andò per due volte in bancarotta a causa dell’instabilità politica, decise nel 1908 di nominare primo ministro João Franco, che si assunse il compito di istituire una dittatura in grado di riabilitare la figura della nazione all’estero. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
I partiti repubblicani e progressisti, in rotta contro il governo istituito dalla monarchia, decise di usare la linea dura: dopo varie avvisaglie e tentati colpi di Stato, Carlo I sapeva di avere i giorni contati. Così l’attentato omicida ebbe luogo in data 1 febbraio 1908.
Il re aveva soggiornato con la sua famiglia presso il Palazzo di Vila Viçosa, dove era stata organizzata una battuta di caccia. Una volta tornati a Lisbona, i reali arrivarono in Piazza del Palazzo (attuale Praça do Comércio) e, tra due ali di folla, la attraversarono in carrozza per giungere alla reggia.
C’era molta confusione e allora Alfredo Costa e Manuel Buiça, due attivisti repubblicani, ne approfittarono per consumare l’omicidio. Esplosero diversi colpi di rivoltella verso la carrozza e Carlo I morì sul colpo. Non fu l’unica vittima, in quanto anche suo figlio, il principe ereditario Luigi Filippo, decedette per le gravi ferite infertegli dai proiettili. La moglie del Re e l’altro figlio, il futuro sovrano Manuel, sopravvissero. Gli attentatori, individuati immediatamente tra la calca, furono uccisi sul posto dalle guardie reali.
Un curioso aneddoto sottolinea come il sovrano portoghese attendesse la sua imminente dipartita: durante il soggiorno a Vila Viçosa, il primo ministro João Franco stilò un decreto che prevedeva l’esilio all’estero senza processo per coloro che avessero creato disordini pubblici. Un decreto che implicitamente mirava a colpire i ribelli repubblicani e Carlo I, rassegnato, decise di firmarlo, pronunciando una frase predittiva: ” Sto firmando la mia condanna a morte, ma se il signore lo vuole..”
UN’APPARENZA PIÙ FORTE DELL’EVIDENZA
Quando la posta in gioco si fa di vitale importanza, bisogna organizzare il tutto fin nei minimi particolari. Questo sicuramente l’avrà pensato Sofja Perovskaja che, nell’organizzare l’attentato allo Zar Alessandro II Romanov di Russia, architettò un piano che non lasciava nulla al caso.
Sofja era un membro del Comitato esecutivo di Narodnaja volja ( Volontà del popolo), un’organizzazione rivoluzionaria che, ispirandosi agli ideali socialisti, aveva come fine ultimo il crollo del regime zarista.
Il giorno predesignato per compiere l’omicidio era il 13 marzo 1881. In precedenza alcuni membri dell’organizzazione avevano studiato i percorsi che erano attraversati solitamente dal corteo reale nella città di San Pietroburgo e questo portò a stabilire i luoghi dove assalire lo Zar: il piano prevedeva che gli attentatori si sarebbero riuniti presso la Prospettiva Nevskij, precisamente in via Malaja Sadovaja oppure lungo il canale Caterina.
Il corteo che trasportava Alessandro II imboccò proprio quest’ultimo canale e allora i quattro esecutori materiali entrarono in azione. L’arma non era una pistola, tantomeno un coltello, bensì si sarebbero dovuti utilizzare quattro ordigni, ognuno in mano ad un attentatore. La prima bomba deflagrò vicino alla carrozza senza causare danni, invece un secondo esplosivo, lanciato da Ignatij Grinevickij, ferì mortalmente sia lo Zar, che era sceso per controllare cosa fosse successo pochi attimi prima, sia l’omicida.
Questo atto terroristico diede ufficialmente il via all’epoca degli attentati, che culminerà con l’omicidio del principe Francesco Ferdinando, casus belli della prima guerra mondiale.
Lo stesso erede al trono dell’Impero austro-ungarico verrà assassinato mentre si spostava in carrozza.
Il fine ultimo della Narodnaja Volja era quello di svegliare il popolo russo ed invitarlo a lavorare per ottenere la democrazia. Tuttavia, dopo l’attentato, la popolazione non collaborò con questa organizzazione rivoluzionaria, poichè credeva che l’uccisione del loro Zar fosse avvenuta per mano dei nobili, essendo radicata l’illusione che Alessandro II difendesse i contadini dai soprusi della nobiltà. Un’illusione appunto, in quanto la politica liberalista dello Zar aveva cessato di esistere da molti anni. E così per i narodovol’cy fu l’inizio della fine.
La morte dell’imperatore al contrario alzò una forte risposta in difesa del regime zarista, che portò l’intero Comitato esecutivo della Narodnaja ad essere giustiziato attraverso impiccagione e fucilazione, e Sofja, ideatrice dell’attentato, fu l’ultima ad essere arrestata e condannata alla sentenza capitale. L’organizzazione fu distrutta e questa fu l’ultima difesa popolare a sostegno degli zar, prima della rivoluzione russa che porterà alla loro capitolazione.
PARIGI VAL BENE UNA MESSA
La carrozza fu anche il letto funebre del sovrano Enrico IV di Francia. Nato ugonotto, si convertì al cattolicesimo una prima volta in seguito alla “notte di San Bartolomeo, nel 1572, e definitivamente nel 1593. Il fine della conversione era quello di evitare che la Lega cattolica guidata da Enrico di Guisa trovasse altri pretendenti al trono francese. Enrico IV sembrò riuscire ad essersi stabilito definitivamente sul trono francese, quando decise di emettere l’Editto di Nantes, con cui pose fine alle guerre di religione tra i cattolici e i protestanti, concedendo la libertà di culto.
Il suo passaggio al cattolicesimo non fu appurato del tutto e in molti nutrivano dubbi, che vennero confermati in seguito all’emendazione del decreto.
Per Enrico IV, detto il Grande, la morte sopraggiunse quasi per caso: in data 14 maggio 1610, un fanatico cattolico di nome François Ravaillac vide l’attacco del sovrano francese nei confronti della come un affronto al Papato e decise di compiere un gesto estremo, cioè quello di ucciderlo.
Il piano dell’attentatore prevedeva l’utilizzo di un semplice coltello e, complice la contemporanea uscita del Re in carrozza privo di scorte e di tettuccio, fu portato a termine.
Ravaillac saltò sul predellino di destra e accoltellò il sovrano con due fendenti, entrambi tra le costole. Già il primo affondo fu quello mortale, dato che centrò in pieno il cuore.
La morte improvvisa del loro Re portò la folla inferocita a tentare di linciare l’assassino, che venne salvato in tempo dalle guardie. Con il senno di poi Ravaillac avrebbe sicuramente preferito essere ucciso in strada, poichè fu condannato al supplizio estremo: la morte per squartamento.
Fu la penultima vittima di questa esecuzione, poichè entrò in pensione con l’introduzione della ghigliottina, ritenuta più “umana”.
Solo verso la fine del XX secolo sono state aggiunte misure di sicurezza efficienti alle vetture che trasportano personalità importanti. Un esempio su tutti è la Papamobile che, dopo l’attentato a Giovanni Paolo II, da essere una semplice Fiat Campagnola scoperta venne modificata con l’aggiunta di una capsula in vetro anti-proiettili, che avrebbe protetto i successivi Papa da qualsiasi sparo.
Se ci fosse stato da scegliere tra un giro in calesse o una sfilata in auto, chissà se i sovrani avrebbero anteposto la propria sicurezza nei confronti del comfort offerto da un corteo reale in carrozza. Eppure, se è vero che l’eleganza si addice ad uomini di personalità, forse i vari Umberto I e Alessandro II avrebbero volentieri corso il pericolo di girare tra i “fidati” sudditi con i capelli al vento.
-di Stefano Salatino
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BIBLIOGRAFIA
-BIM | Biblioteca Comunale di Imola · Il regicidio
– multescatola.com: Carlo I
-Wikipedia: Alessandro II, Sofja, Enrico IV