I sette fratelli Govoni – Vittime dell’Ansia da Vincitore

La Storia dei sette fratelli Govoni e della loro esecuzione per mano partigiana è il principale oggetto del mio Racconto. Temi delicati quali il significato di vincitori e vinti, la giustizia straordinaria in tempo di guerra, la trappola della ricerca di una verità assoluta.

Anni fa, mentre svolgevo attività politica di sinistra per le strade di Pieve di Cento, un piccolo comune in provincia di Bologna, ho appreso per la prima volta dell’eccidio dei 7 fratelli Govoni, avvenuto l’11 maggio 1945. Un simpatico vecchietto del posto – sostenitore di destra più per scherno verso i suoi amici rossi che per vera convinzione ideologica – mi si è offerto come cantore della loro vita e della fine di essa. La morale della favola si lasciava ben intendere ‘la storia è scritta dai vincitori, ma essi un tempo erano e torneranno vinti‘. Il ciclo della storia, da una prospettiva originale. Un Racconto Storico decisivo affinché facessi autocritica consapevole. Per la prima volta dubitai del mio approccio alla ricerca storica, e ho deciso di trattarlo appositamente in quest’articolo.

Il fatto: le vicende di Argelato

Maggio 1945. Agro di Argelato, nelle campagne a nord di Bologna. In due eventi distinti, la 2a Brigata Garibaldi ‘Paolo’ operò il sequestro e l’uccisione previa tortura di ventinove persone sospettate di adesione al fascismo, tra cui i sette fratelli Govoni. Il 9 maggio, i partigiani strangolano dodici individui ritenuti colpevoli dopo un processo sommario. L’11 successivo, coadiuvati da numerosi ‘fratelli d’arme’, seviziano a morte i Govoni assieme ad altri dieci compagni di sventura. Una fossa anticarro ne accoglie le spoglie. È Storia.

i protagonisti

Dino, Marino, Emo, Giuseppe, Augusto, Primo, Ida.
I nomi dei fratelli Govoni che condivisero la morte. Sette di otto (Maria fu l’unica a salvarsi e non compare nell’elenco), figli di Cesare e Caterina e genitori essi stessi. Il più anziano 41 anni, l’ultimogenita aveva da poco compiuto 20 anni. Una famiglia contadina ed emiliana doc, originaria di Pieve di Cento e poco, quasi del nulla attiva in politica.

I sette fratelli Govoni

Marco, Pietro, Drago, Gino, Zampo, Ultimo, Lulù
Rispettivamente, i soprannomi di Marcello Zanetti, Enzo Fustini, Vittorio Caffeo, Adelmo Benini, Vitaliano Bertuzzi, Luigi Borghi, Zelinda Resta, alcuni dei partigiani promotori ed esecutori materiali degli eccidi di Argelato. Comunisti, per lo più giovani ventenni e militanti della 2a Brigata Garibaldi ‘Paolo’, operavano nelle campagne a nord di Bologna. Il suddetto Caffeo era stato incaricato, in qualità di commissario politico dell’unità paramilitare, di supervisionarne le azioni di modo che agissero in linea con le direttive del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Bandiera della 2° Brigata ‘Paolo’

Comunismo, Socialismo, Cattolicesimo, Socialdemocrazia, Liberalismo, Radicalismo
Le correnti politiche interne al CLN (1943-47), il grande partito italiano di (quasi) tutte le forze antifasciste. Un compromesso fruttuoso di natura interpartitica che vide il CLN accogliere coloro desiderosi di coalizzarsi contro la grande minaccia dell’ultradestra. Ma difficile da mantenere nel tempo. Quando il nemico fu sconfitto, la distanza tra i vari programmi politici proposti per l’Italia Libera si rivelò incolmabile segnando la fine di questa esperienza collettiva.

Il contesto: le chiavi di lettura

Iniziamo col tenere bene a mente lo scenario madre dove agiscono i nostri attori: la Seconda Guerra Mondiale.

Il bollettino italiano di guerra (o di pace) aggiornato al maggio 1945 riportava notizie fresche. Come la Liberazione dall’invasore nazifascista e il crollo della Repubblica Sociale Italiana (25 aprile), oltre che la morte di Benito Mussolini (28 aprile). Dopo mesi di cruenti scontri, il Comitato di Liberazione Nazionale poté finalmente uscire dalla clandestinità ed affermarsi come autorità costituita, ricevendone il testimone dalle mani della Resistenza italiana. Il popolo festante invase le strade manifestando sollievo per la fine di un incubo durato per chi sei anni per chi oltre venti.

Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro‘ ebbe a dire il partigiano comunista Arrigo Boldrini. Tuttavia, dopo aver celebrato sul podio e in zona mista, il terzo tempo fu a numero chiuso. A sottolineare che non tutti avrebbero partecipato alla festa. Anzi, a chi ne rimase fuori sarebbe spettato il saldo del conto.

ansia da vincitore

‘O con noi o contro di noi’ è uno slogan tipico della propaganda fascista durante il Ventennio, di tanto in tanto riesumato dai suoi nostalgici. Ma questa frase è facilmente sovrapponibile al labiale di tutti coloro che detengono il potere transitorio dopo aver operato un cambiamento radicale, una rivoluzione. Tale motto è un’anticamera che conduce all’ansia da vincitore.

Chi è un vincitore? Per spiegarlo non è sufficiente sventolare il ventaglio bicolore vittoria-sconfitta, dobbiamo stenderlo alla ricerca di tutte le possibilità spaziali e temporali. Una Storia, l’evento come evento, è circoscritta ad uno spazio-tempo ben definito, mentre i suoi racconti viaggiano su piani differenti. E inoltre esiste una singolarità, il Racconto Soggettivo, la narrazione degli eventi dal punto di vista di chi li ha compiuti. Una versione privilegiata ma per questo non assoluta.

Ognuno in vita compie azioni, crea diverse Storie che possono essere commentate da se stesso (il Racconto Soggettivo) e dagli altri (il Racconto Storico). Sia nel momento in cui avvengono che successivamente. L’uomo dunque è detentore di una visuale unica della propria Storia, ma non di essa stessa. La Storia, una volta successa, succede per sempre e così rimane. Ma noi tutte possiamo darle significato diverso, esprimendoci su quanto accaduto da tempi e luoghi diversi. Tizio o Caio, prima o dopo, lì o altrove, le finalità di un Racconto Storico variano in base al suo contesto e viceversa.

Ad esempio, Adelmo Benni, il partigiano ‘Ultimo’, ha vissuto ed è morto. Esalando l’ultimo respiro ha posto fine alla sua capacità di creare Storie e di darne una lettura soggettiva. Questo compito spetta agli altri, ai Racconti Storici in cui egli è stato e sarà sempre al contempo vinto e vincitore. In vita, vincitore per i suoi compagni di lotta e se stesso, vinto per i suoi oppositori. Dopo la morte, vittorioso nei libri di testo del Partito Comunista Italiano, sconfitto qualora dovesse raffermarsi un regime politico anticomunista e negazionista della Resistenza. Chiunque col Racconto Storico può esporre e giudicare la Storia, può contraddire ma non modificare il Racconto Soggettivo con cui ‘Ultimo’ descrisse la propria condotta.

Tutti i dibattiti condividono la stessa origine. Sono prodotti dagli uomini che, irrazionali e logici al contempo, accolgono e mettono in discussione forme ed espressioni differenti di pensiero, di Racconto Storico. La Guerra non è altro che l’evoluzione distruttiva di questo normale processo. Quando l’incontro-scontro tra Racconti Storici e Soggettivi prevede la necessità di individuare un vincitore e uno sconfitto, di imporsi con la forza l’uno sull’altro, ecco la Guerra. Che si risolverà con nuovi vincitori e sconfitti, in un ciclo apparentemente infrangibile.

Vincitore e vinto. Ma il loro significato assoluto non deve ingannarci, mantenendo essi stessi la natura di concetti facilitanti per il Racconto Storico. E con questa consapevolezza, possiamo utilizzarli. Chiunque può proclamarsi o essere individuato come vincitore di una Storia, ma il consenso non è mai unanime o eterno. In vita, se il Racconto Soggettivo del candidato vincitore coincide a grandi linee con la narrazione prevalente dei Racconti Storici, allora quest’ultima, cioè il riconoscimento pubblico, conferma l’uomo come tale e gli garantisce gloria, fama, potere decisionale e altre facoltà da esercitare collettivamente o in privato.

Nel momento in cui i Racconti Storici non possono più dialogare con il Racconto Soggettivo, quando non abbiamo più possibilità di confrontarci con i creatori di una determinata Storia, viene a mancare un punto di vista unico e importante. Tanto che sono noti molti casi di autobiografie – il mezzo per eccellenza attraverso cui tramandare i Racconti Soggettivi – manipolate e forzate da coloro che desiderano far combaciare il proprio giudizio di una Storia con quello dei protagonisti stessi. Oscurando così una veduta storica, sebbene non definitiva, unica nel suo genere.

Lo stesso accade quando il Racconto Soggettivo dell’aspirante trionfatore non riceve un riscontro pubblico nel Racconto Storico dominante, ed egli risulta sconfitto. In quest’ultimo caso, potrebbe considerarsi il ‘vincitore morale’ e pertanto forzare pubblicamente il riconoscimento che desidera conseguire. Pertanto, il vincitore morale è il principale soggetto storico che presenta sintomi riconducibili ad uno stato di ansia, da cui appunto ‘ansia da vincitore’. Tenendo conto che il mio Racconto Storico non prevede vincitori e vinti definitivi o costanze storiche, è chiara la natura semplificante di questa locuzione.

Alla minima avvisaglia di qualsiasi pericolo, il vincitore morale contrattacca o si difende. Non accetta che il suo nemico gli possa esser portato via impunemente o che ci siano dissensi. I sacrifici, troppi. La sofferenza patita, inumana. Sete di vendetta, inestinguibile. Tali sentimenti si traducono in sospetto generalizzato e inquietudine, fretta di agire, paura. Ansia da vincitore.

inquietudine da giustizia

Uscire dalla guerra è difficile. Affinché si possa annichilire il male originario, l’uomo reputa come necessario di saltare da un estremo all’altro, Nel caso dell’Italia liberata, si passa dal controllo centralizzato imposto dal regime fascista a quello transitorio e oclocratico dei partigiani, dei non fascisti.

Una volta caduta la RSI, il CLN organizzò un servizio di polizia partigiana con l’obiettivo di garantire l’ordine nei territori appena liberati. Questa milizia fu composta per la maggior parte da reduci della Resistenza. In assenza e in attesa dell’autorità costituita, i partigiani detennero la prerogativa di giustizia, il diritto di vita e di morte, esercitandoli in appositi tribunali, veloci a costituirsi tanto quanto lo furono a sentenziare pene.

I tribunali partigiani nascevano come organo di giustizia post-bellico con il compito di pronunciarsi sui crimini di guerra e su chi li aveva compiuti. Come detto in precedenza, qualcuno avrebbe dovuto pagare per tutto il dolore arrecato. Tuttavia, la narrazione bonaria dei vincitori che giudicano con equanimità gli sconfitti si infrange sulla costante storica dell’impraticabilità del perdono.

Fin da subito la garanzia collegiale della giustizia viene scavalcata dagli interessi dei singoli che agiscono sotto la bandiera del vincitore, mossi da odio, rancore o agitati da un movente politico. Così questi tribunali diventano teatro di regolari processi di guerra alternati a storie di vendetta personale, atti di sciacallaggio, accuse infondate, che potevano qui trovare una rapida soddisfazione mediante l’eliminazione fisica dell’avversario.

La presunzione di innocenza è inesistente nella giustizia straordinaria esercitata dal vincitore morale. Egli non può o non vuole riconoscere un delatore, qual è colui che desiderando eliminare il rivale in amore si reca dalle autorità per muovergli l’infondata accusa di ‘adesione al fascismo’; o soffermarsi su una testimonianza effettiva, come quella di una madre che redige la lista con i possibili nomi degli squadristi che le hanno sottratto i figli. Questo tipo di giustizia non se ne concede il tempo. Così sia l’uomo colpevole di aver amato che tutti i nomi segnati sulla lista, compresi i due innocenti riportati per errore dalla genitrice accecata dal dolore, sono condannati a morte. Sommariamente.

l’EMILIA ROSSA

Nelle campagne a nord di Bologna, comprese quelle limitrofe delle province di Modena, Ferrara e Reggio Emilia, prevaleva la componente partigiana di ideologia comunista. Questa zona sarà in seguito soprannominata Triangolo Rosso, proprio per l’elevato numero di omicidi politici commessi dai militanti di sinistra nell’immediato dopoguerra. Argelato e dintorni mantennero fede a quest’epiteto e ciò che successe qui era destinato a rimanere per lungo tempo imperscrutabile.

Dopo la Liberazione, i partigiani comunisti batterono i paesi del Triangolo Rosso a caccia di prede: un fascista della prima ora o, se non si trovava, anche solo un collaborazionista o un tesserato PFR. Che dire di quel prete cattolico che ha offerto rifugio ad un soldato nazista. E dello spocchioso democratico anticomunista… Poco importa se il contadino ha aderito al fascismo solo di facciata, per timore o non trovando la forza di combatterlo. Ancor meno accettabile che il religioso abbia tenuto fede al proprio credo ospitando un giovane disertore tedesco, sconvolto e impaurito dalla barbarie della guerra. O che quel ragazzo dalle differenti idee politiche abbia combattuto al mio fianco contro un nemico comune.

Bisogna adeguarsi alla volontà dell’ideologia vincitrice e dominante. Nell’Emilia del dopoguerra ciò significava rispettare la linea di pensiero dettata dal Comunismo. Esso è totale e impietoso nei confronti di dissidenti e pilati, maestro d’arte nel non porgere l’altra guancia, disposto a sacrificare tutto per il mantenimento del potere appena acquisto. ‘C come Castigo’.

Ma quando lo Stato sarà proletario… noi saremo completamente e incondizionatamente per un potere forte e per il centralismo… Non c’è via di mezzo‘. Il centralismo democratico illustrato da Lenin è uno dei fondamenti della sua teoria e consiste nella libertà di ogni membro del partito di esprimere il proprio parere su una scelta politica da compiere. Una volta che la maggioranza si esprime, il gruppo minoritario è tenuto a rispettarla senza proteste oppure a fuoriuscire dall’organizzazione. Secondo la ferrea disciplina comunista non c’è spazio per il dissenso sulle linee di partito e all’interno dello stesso.

I comunisti sono di gran lunga i vincitori più umani che la Storia abbia mai prodotto: forgiati secondo principi di coerenza e razionalità, mossi da un teorico amore inclusivo per il prossimo, nella pratica non riescono mai a ricondurre i propri ideali sul piano della realtà presente. Un giorno, chissà…

Il mio racconto storico

Gli strumenti di lettura forniti finora sono adatti ad analizzare in modo critico i fatti di Argelato, la sorte dei Fratelli Govoni, il ruolo di chi è definito ora vittima ora carnefice. Molte sfumature caratterizzano la Storia, perciò non è sufficiente vedere solo rosso o nero.

L’ANSIA DA VINCITORE DELLA 2° brigata

Non sono qui per compiere un’opera di riabilitazione storica né per individuare una verità che penda a favore dell’uno o dell’altro. Del resto, neanche gli stessi partecipanti coinvolti a vario titolo dalle vicende di Argelato saprebbero dire con certezza ciò che successe. Ventinove persone furono requisite con l’inganno e con la forza dai partigiani della 2° Brigata. Condotte in giorni differenti in due casolari così da essere ‘interrogate’. Torturate, infine giudicate – o meglio, rese partecipi del perché sarebbero morte – e strangolate. In meno di 24 ore.

Una trentina i partigiani coinvolti, ma è possibile che ad agire sotto la bandiera dell’ideale comunista ci fosse anche chi serbava rancore personale verso le vittime. Formalmente, per tutti i trattenuti pendeva la stessa accusa – di adesione al regime –, mentre gli aguzzini condividevano un’eguale sete di giustizia antifascista. Nella forma, appunto, perché sia di una che dell’altra possiamo facilmente dubitare. Le cause sono varie e differenti così come i punti di vista da cui individuarle.

Solo Dino e Marino, i due maggiori dei Govoni, aderirono alla neo-costituita RSI, mentre è attestata una totale estraneità politica dei rimanenti fratelli. Tra le vittime del 9 maggio ci furono anche il vecchio podestà di San Pietro in Casale, Sisto Costa, assieme a moglie e figlio. Per la giustizia partigiana, il ruolo ricoperto da Costa rientrava nelle gerarchie fasciste e ciò presuppose una partecipazione attiva alla politica di regime. Una preda perfetta.

Poi, il già citato Giacomo Malaguti, anticomunista, che ebbe in più occasioni degli screzi con i partigiani arrivando a dire che ‘una volta arrivate le autorità, avrebbero finito di comandare’, riferendosi ai tribunali partigiani in funzione nelle zone liberate per poche settimane prima di essere smantellati con la venuta del CLN e degli Alleati.

Non si è a conoscenza della storia di ogni singola vittima. Ho scelto i tre casi più eclatanti, quelli pregni di significato e meglio documentati. La versione di questi esempi scelti immancabilmente non è unica. Ad esempio, ci sono accuse che riportano come alcuni fratelli Govoni parteciparono in prima persona alle sortite della Brigata Nera di Pieve, un’unità paramilitare fascista che terrorizzò la pianura bolognese tra il ’43 e il ’45. Versioni differenti ma uguali che non intaccano uno dei fini del mio ragionamento storico, indagare gli eventi di Argelato, la Storia, attraverso una possibile chiave interpretativa di come essi si ‘crearono’.

Durante la ricerca, è venuto spontaneo domandarmi ‘perché giustiziare un’intera famiglia, o moglie e figlio di un gerarca locale, oppure un reduce di guerra’. E la risposta è stata: paura, paura della vendetta, paura di ingiustizia, paura del dissenso. Tutti principi dell’ansia da vincitore che angosciò i partigiani della 2° Brigata ‘Paolo’, vincitori morali ma non campioni della Resistenza.

Potete ora comprendere che effetto dovettero far loro le parole di Malaguti, per di più tradizionalista e anticomunista, nel momento in cui toccò un tasto dolente affermando che i giorni di potere dei partigiani sarebbero terminati con l’arrivo dei vincitori riconosciuti, Alleati e CLN. Paura di ingiustizia, per il sospetto che quest’ultimi impiegassero un giudizio remissivo e macchinoso opposto a quello dell’impietosa legge partigiana.

Un timore già vissuto poco dopo il 25 aprile quando il CLN convocò Dino e Marino Govoni, per poi rilasciarli non potendogli addebitare nulla. I membri della 2° Brigata sentirono puzza di tradimento da parte dei loro stessi superiori e pertanto, non potendo ottenere la giustizia premeditata, decisero di operare per conto proprio. Non due, bensì sette fratelli presi in custodia con l’inganno. Paura della vendetta, stando alle fonti che descrivono la famiglia Govoni come una famiglia forte e unita, che avrebbe reagito e contrattaccato non appena un solo membro si fosse trovato in pericolo.

Preoccupazioni entrambe rintracciabili nel caso di Sisto Costa, il vecchio magistrato fascista passibile di perdono da parte della futura giustizia italiana e pertanto meritevole dell’immediata garrota partigiana. Assieme a moglie e figlioletto, potenziali semi di discordia nel dopoguerra.

Un altro sintomo di quest’ansia è l’inganno ordito dai partigiani per prelevare i ventinove di Argelato, assicurando loro che sarebbero stati condotti in tribunale per poi essere rilasciati. Misure di sicurezza. Chi si fece abbindolare è perché si aspettava un processo come atto doveroso vista la propria posizione durante la guerra, ad esempio Sisto Costa. Oppure seguì i partigiani sicuro che si trattasse di un malinteso – Giacomo Malaguti mostrò tranquillità considerandosi vittima di un equivoco che ben presto sarebbe stato risolto, così come alcuni fratelli Govoni quando la sera prima del sequestro si recarono a ballare ad una festa -.
Tanto che nessuno oppose resistenza tra chiunque, parenti o amici, fosse a conoscenza dei prelievi, forse tranquillizzato dai cari stessi, dalla supposta rettitudine loro e dei partigiani. Come leggerete, ci fu un unico caso che vide un uomo diffidente dei partigiani salvare il fratello dalle loro mani. In generale, una fiducia malriposta che in seguito avrebbero pagato a caro prezzo.

Ecco i partigiani della 2° Brigata ‘Paolo’ quali vincitori morali, tra i tanti nati durante la Seconda Guerra Mondiale. Vincitori autoproclamati, riconosciuti come tali ora dietro forzatura – esercitando terrore passivo o attivo – ora spontaneamente dalla gente del posto. Ma non dal Racconto Storico dominante. Il loro racconto cozza con la principale convinzione strisciante in Emilia nel dopoguerra: essa rispecchia quella italiana, quella degli Alleati, cioè andare avanti, superare il momento, perdonare ed essere perdonati, con o senza pentimento. Ironicamente, i partigiani sarebbero stati i primi beneficiari di questa politica da loro stessi osteggiata.

il giudizio del vincitore

Non possediamo testimonianze scritte contemporanee degli eventi accaduti tra l’8 e l’11 maggio 1945. Così come non furono a disposizione della giustizia italiana durante la Prima Repubblica, che si occupò di processare i responsabili della morte di ventinove persone. Ma l’indagine in questione ebbe inizio e poté giungere ad una ricostruzione di quanto accaduto solo grazie alla testimonianza di un diretto interessato. O squarciando il velo d’odio che si era posato sulla comunità di Pieve di Cento. O ancora per la scrupolosità di un carabiniere che trovò i cadaveri del primo gruppo di giustiziati. Di sicuro le autorità repubblicane erano al corrente che una tale carneficina, qualora confermata, non sarebbe stata né la prima né l’ultima che i partigiani avrebbero tirato fuori dal proprio armadietto di guerra.

Fossa comune di Argelato

Tant’è che l’Amnistia Togliatti (23 giugno 1946) che deriva il nome dal suo proponente Palmiro Togliatti – dirigente comunista e ultimo ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia – fu un espediente fortemente indirizzato a loro favore, così da fargli ottenere pene meno severe o l’indulto per tutti i delitti politici commessi, sotto la cui dicitura risultarono le vittime dell’eccidio di Argelato.

Questo provvedimento, assieme alla protezione diretta – tradotta il più delle volte in espatrio clandestino – offerta dal PCI, è la spiegazione di come nessuno dei quasi trenta imputati coinvolti nei fatti di Argelato scontò appieno le pene inflitte dalla Corte di Assise di Bologna nel febbraio 1953. E anche del perché i capi di accusa presentati al processo – tra i più gravi abbiamo omicidio premeditato, sequestro di persona, reato di tortura, spoliazione ed occultamento di cadavere –  fossero tutti declinati al singolare. Proprio così, su ventinove omicidi solo quello di Giacomo Malaguti, giovane ufficiale degli Alpini e valoroso combattente contro il nazi-fascismo, non fu passibile di amnistia.

Uno su ventinove. Uno nonostante la testimonianza di Guido Cevolani che la sera del 9 maggio strappò all’ultimo il fratello dalle mani partigiane evitandogli di essere il trentesimo nome della loro lista e riuscì a vedere i volti martoriati degli altri prigionieri torturati. Uno degli oltre quaranta resti umani trovati il 24 febbraio 1951 in due fosse anticarro vicino al luogo dei misfatti, tra cui risultano quelli dei fratelli Govoni e degli altri giustiziati l’11 maggio. Nessuno degli scheletri presentava lesioni d’arma da fuoco, solo ossa rotte e incrinate a significare che tutti morirono in seguito alle terribili torture subite.

Fin dalla sua istruzione, il processo di Bologna tendeva ad un rapido compromesso. Se la giustizia ordinaria avesse sviscerato nella sua interezza gli eventi e i protagonisti di Argelato, sarebbe incappata in vittime innocenti di colpevoli, vittime colpevoli di colpevoli, o colpevoli innocenti di vittime. E non poteva concedersi, ancora una volta, il tempo necessario per svolgere le dovute indagini.

La neonata Repubblica Italiana era impegnata a percorrere il solco segnato dagli Alleati: rapidità nel mettersi alle spalle la guerra, perdonare i nemici (o più precisamente, non accanircisi, imparando la lezione dei precedenti trattati di pace che furono così gravosi da nutrire l’odio e il rancore nei vinti) per ricostruire un nuove tempo di pace.

Nell’estate 1947, gli Stati Uniti avviano il Piano Marshall per la ripresa europea, e le terapie scelte per la riabilitazione psicologica del Vecchio Continente variano di popolo in popolo. Ad esempio, per il bene dei tedeschi si optò per la cancellazione di ogni riferimento al nazismo e alla guerra dal loro vivere quotidiano, per poi riprenderne gradualmente le tematiche quando i tempi sarebbero stati maturi. Dimenticare gli errori del passato, come la partecipazione attiva alla creazione del nazi-fascismo o le violenze fratricide avvenute durante la guerra civile (1943-45), fu il compito assegnato al frammentato popolo italiano, agli occhi degli Alleati in un ambiguo ruolo di sconfitto-vincitore.

Fu lo stesso fascismo che indirettamente aiutò la Repubblica Italiana a formarsi. O meglio, fu l’odio per esso che permise la Liberazione e la nascita del grande compromesso nazionale. Un compromesso generale, da applicare ovunque in nome della ricostruzione della pace. Così la giustizia, decisa a non fare luce su racconti e accuse che avrebbero potuto screditare l’utile mito partigiano della Resistenza, ne promosse il silenzio pubblico a favore della riparazione sottobanco (rimborsi ai parenti, pensioni di guerra).  

I GOVONI E LA TORTURA MEDIATICA

Tutt’oggi, le vicende di Argelato siano divenute un campo di battaglia per la destra e la sinistra italiana (o tra chi vi ci si individua), impegnate ognuna a dare la propria lettura dei fatti, tra chi li utilizza per screditare il mito partigiano e comunista e chi invece come un esempio di giustizia contro l’odio fascista.

In realtà, differenti ideologie politiche e correnti di pensiero hanno trasformato il Racconto Storico di quanto accaduto in una guerra morale, impegnate come sono nella ricerca accanita del giudizio definitivo e sensazionalistico per ogni accadimento storico, o nel tirare acqua al proprio mulino. A mio avviso, il mancato utilizzo di una visuale libera e dinamica sulla Storia non può farci minimamente avvicinare a un giudizio di senso compiuto, tanto meno se esso ha velleità di assolutismo. Chiacchiere da salotto.

Manifesto in memoria dei fratelli Govoni imbrattato con ‘Falce e Martello’ e la scritta Spie

Per il sensazionalismo mediatico, i sette fratelli Govoni sono una manna dal cielo. Essi fungono da perfetta controparte politica, geografica e numerica dei più celebri sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1943 a Reggio Emilia. I fratelli Govoni sono trasformati nell’eterno e umile contraltare politico volto ad evidenziare la magnificenza di quello dedicato all’eroe, al vincitore, in una posizione mediana tra tortura eterna e salvezza dall’oblio storico.

La famiglia Cervi

Una delle personalità pubbliche più in vista a sbottonarsi sulla sorte dei fratelli Govoni è stato il politico di sinistra Fausto Bertinotti, impostando il proprio discorso sul confronto summenzionato così come integralmente riportato di seguito ‘Come vittime i sette giovani Cervi e i sette giovani Govoni, per me sono uguali; come vittime! La differenza consiste che i primi hanno costruito la Repubblica italiana e perciò vanno onorati non come morti, ma come attori di quel cambiamento. Gli altri non hanno fatto niente, sono vittime, ma non come attori della storia. Ci sarà pure una differenza, o no?

Un discorso che rispecchia appieno la narrazione del vincitore. Per vincitore, leggasi l’antifascismo, il compromesso che diede vita alla Repubblica Italiana. La bestia del fascismo è tuttora in grado di unire due tra i più acerrimi nemici, o che almeno dovrebbero essere tali sulla carta. Infatti, un comunista convinto come Bertinotti che sciorina simpatia per i fratelli Cervi, non tutti di sinistra e provenienti da una famiglia cattolica e democratica.

Sono certo che se a pronunciarsi sulla questione fosse stato, ad esempio, un arcivescovo cattolico, la seconda parte avrebbe avuto contenuti differenti o non sarebbe stata mai pronunciata. Per seconda parte del discorso intendo quella dove si opera su un piano di presunta dignità storica, dove la mania di protagonismo storico propria dell’ideologia comunista si manifesta appieno, secondo cui astenersi e non prendere parte alla creazione della Storia significa ‘non valere tanto quanto‘.

L’unico accenno di novità che le parole di Bertinotti portarono all’interno del dibattito sui Fratelli Govoni, è considerarli come ‘innocenti‘. Per la prima volta, non si tratta dell’innocenza cucitagli addosso da esponenti italiani di destra che li rappresentano come ‘agnelli sacrificali’ ammazzati dai ‘comunisti cattivoni’ tanto per infastidire gli avversari politici (ad esempio, la vicenda dai contorni politici assurta agli onori della cronache sulla variazione toponomastica dell’esistente ‘Piazzale Sette Fratelli Govoni’ di Cento (FE)). L’innocenza è una posizione intermedia tra vincitori e vinti, e proprio come quest’ultimi non rappresenta una nozione assoluta, bensì un concetto facilitante per comprendere la posizione di chi commenta.

In questo scontro mediatico c’è anche spazio per la forzata contrapposizione tra Alcide e Genoeffa Cervi, genitori di sette martiri – Cesare e Caterina Govoni, genitori di sette morti, innocenti o fascisti che essi siano.
I coniugi Cervi ottengono l’approvazione pubblica, salgono sul podio del Dopoguerra come vincitori assieme ai propri figli. La versione eroica della loro Storia è letta in tutte le piazze, nelle scuole, riempie le pagine dei libri. Il mito di sette fratelli utile al racconto della nuova Repubblica Italiana.
L’unico riconoscimento ottenuto in vita dagli ormai ottuagenari Govoni è il risarcimento di settemila lire mensili, mille per ogni figlio perduto, che lo Stato assegnò loro nel 1961. Il silenzio su sette fratelli utile al racconto della nuova Repubblica Italiana.

invito a dubitare

Abbiamo assistito al match da diversi settori dello stadio, magari la squadra da noi prescelta ha vinto ed è anche salita al primo posto. Se vi sentite pronti per un giudizio definitivo a quanto letto, ai fatti di Argelato, frenatevi. Perché ci sarebbero tante altre chiavi di lettura attraverso cui analizzare questa Storia.

Dubitare significa mettere in conto e approfondire il tema di come il proprio attivismo antifascista costò quasi tutto alla famiglia Cervi, mentre l’astensione (o partecipazione, per quanto sia potuta essere attiva o di facciata) dalla lotta al regime tenne al sicuro i Govoni. Dubitare è anche indagare quali traumi vissero i partigiani della 2° Brigata ‘Paolo’ durante la guerra, quando erano ancora sconosciuti al giudizio dei più, e se ci sono, domandarsi quanto influenzarono le loro successive azioni. Oppure essere consapevoli ancora che i ruoli e la dignità delle due coppie di fratelli potrebbero invertirsi nel canovaccio di un futuro ‘regime fasc-simile’.

Dubitare è saper cogliere quanti più narrazioni possibili di ogni Storia, i nuovi attori, i vincitori effettivi e morali. Tutti insieme scombussolano il racconto storico fino ad allora dominante, consolidato e dato per immutabile. Questo perché il campionato della Storia è un torneo infinito, dove si può vincere una partita e muovere la classifica. Ma è impossibile conquistarne il primato definitivo, una verità assoluta che non esiste.

Conclusione

Ecco perché la mia interpretazione dei fatti non prevede un pollice verso o all’insù. La sua spiegazione, o conclusione se preferite, è insita negli strumenti di lettura che vi ho offerto. Mi apro confessandovi che quando venni a conoscenza per la prima volta di quanto successe ad Argelato, provai un’intima soddisfazione nell’ascoltarne la storia. Era per me l’ennesimo tassello che componeva il puzzle della Liberazione dalla dittatura fascista. Tutt’ora, la mia natura ecumenica (atea) mi porta a tirare un sospiro di sollievo per l’abolizione di un regime oppressivo verso il libero pensiero e il diverso.

Ma negli anni successivi, il mio approccio alla Storia si è evoluto. L’odio covato a lungo verso la Filosofia (un ammasso di paroloni retorici e nemica di una supposta praticità assoluta della Storia) ha soffocato a lungo il mio innato scetticismo metodologico. Finché non l’ho riconosciuto come tale, provavo insofferenza nel trovare un dettaglio che facesse vacillare la verità da me acquisita in un dato momento su un avvenimento storico e considerata come assoluta. Ma inconsciamente il dubbio ha sempre operato sottotraccia e fatto sì che non mi fidassi mai a priori del pacchetto convenzionale di conoscenze e precetti morali somministratomi dalla società o dalle singole ideologie.

Riconciliatomi con il me scettico, sono riuscito a liberarmi dagli inutili affanni della ricerca forsennata di una verità assoluta della Storia. L’impagabile soddisfazione di non fermarmi in superficie, di trovare storie nascoste. La sorpresa nel sistemare la bozza di un articolo e ritrovarmi con un testo nuovo e completamente differente. La capacità di argomentare il mio punto di vista e cambiarlo in corsa. Di confrontarmi. Di dubitare.

Per me, per la mia crescita, la storia particolare di Dino, Marino, Emo, Giuseppe, Augusto, Primo, Ida, e di tutti gli altri protagonisti coinvolti a vario titolo nelle vicende di quel maggio 1945, ha significato tanto. Grazie a loro ho spezzato le catene di un ragionamento morale e convenzionale, dell’acriticità.

Il mio iniziale compiacimento per la loro sorte si trasformò prima in indifferenza, poi in compassione, infine in immedesimazione per ognuna di quelle persone, e di nuovo soddisfazione. Giudicavo sbagliato provare tutti questi sentimenti, ma essi erano solo all’apparenza contrastanti. Non avrei dovuto accettarne uno solo, ma essere pronto a viaggiare tra di essi. Ci sarebbe stato sempre quel nuovo dettaglio che avrebbe sconvolto lo stato di cose da me acquisito fino a quel momento non permettendo di fermarmi. Tante possibili letture.

Mettere per iscritto questo articolo è stato difficile. Ho dovuto cambiare un sacco di corriere, ma il mio spirito storico si è divertito e posso ritenermi soddisfatto. Mi auguro che ognuno di voi possa trovare un accadimento che raccontandolo vi turbi, vi faccia appassionare, provare insicurezza. E qualora l’abbiate già vissuto, mi piacerebbe che lo condivideste.

‘Nella metaforica aula di tribunale della Storia, i protagonisti degli eventi si raccontano nei procedimenti a proprio carico. Come una microcamera, liberi di muoverci, noi li accompagniamo mentre si alternano al banco dei testimoni e degli imputati, tra il pubblico e in giuria. Raccogliamo prove e osserviamo più volte la stessa Storia ma da spot sempre differenti. E infine ognuno di noi diviene giudice. Libero di addurre le proprie motivazioni, di esprimere il proprio verdetto… ma senza martelletto!’

Ho piacere nel sapere che siete arrivati fin qui leggendo uno degli articoli-manifesto della mia filosofia storica (e di vita). Sicuro di avervi tediato il giusto. Grazie!

BIBLIOGRAFIA – LINKOGRAFIA

LEGGI ANCHE

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.